Presentato all’ultima Festa del Cinema di Roma, arriva oggi nei cinema La chitarra nella roccia, film-concerto di Lucio Corsi diretto dal sodale Tommaso Ottomano con produzione esecutiva di Borotalco. Il progetto comprende anche un album live, in uscita il prossimo 14 novembre.
Per quanto il film-concerto abbia una sua lunga e importante tradizione, va detto che nel contesto della discografia italiana contemporanea La chitarra nella roccia rappresenta un’operazione in controtendenza. Una scommessa, quella dell’etichetta Sugar, di cui sarà interessante osservare gli effetti in caso di successo. È inutile negare, infatti, che viviamo un periodo estremamente precario per la musica per immagini, che oggi vagano in rete senza più una direzione precisa: YouTube sembra non volerle più, mentre i social dissolvono quel poco di soglia dell’attenzione che ci resta.
A questa corsa alla brevità hanno fatto da contraltare, negli ultimi anni, i film sugli artisti musicali prodotti per le piattaforme di streaming, ghiotte di contenuti lunghi e fanbase già fidelizzate. Netflix, Amazon e affini hanno così finanziato operazioni commerciali di artisti dal successo talvolta effimero, documentando frettolosamente tournée, dietro le quinte e scorci calcolati della vita privata. A questi si aggiunge una manciata di biopic dai toni talvolta agiografici e dalle fortune alterne.
Nulla di tutto ciò, però, appartiene a La chitarra nella roccia: un film concerto la cui distribuzione in sala è già una dichiarazione di intenti, girato per di più in pellicola 16mm, al tramonto, nella suggestiva Abbazia di San Galgano, location iconica del cinema di Tarkovskij e vista più recentemente come set del videoclip Aura di Irama.

La scelta di girare in pellicola, che potrebbe rappresentare un vezzo, è invece decisiva sia in termini estetici che concettuali ed ha rappresentato la principale sfida tecnica. Questa patina vintage, ispirata dagli spezzoni live di Rolling Thunder Revue e dal live dei Who all’Isola di Wight, con la sua grana e i suoi toni caldi, unitamente alla scenografia priva di ledwall, contribuisce a creare un’atmosfera sospesa, fornendo un abito ideale alla teatralità fuori dal tempo di Lucio Corsi e perfettamente coerente con le sue ispirazioni musicali. Funzionando, inoltre, in termini di resa sensoriale del live.
Il direttore della fotografia Marco De Pasquale ha deciso di affrontare tutto il live con la stessa apertura di diaframma dall’inizio alla fine, dando ancora più risalto al naturale evolversi della luce: con il calare del sole le informazioni delle immagini vanno degradando in un crescendo quasi surreale, che oltre a calare lo spettatore nell’hic et nunc del concerto, accompagna puntualmente l’aumento di intensità e coinvolgimento che l’esperienza dal vivo porta con sé. Una soluzione che probabilmente ha funzionato nel film, ma che ha complicato l’esperienza del live vero e proprio: per chi se lo stesse giustamente chiedendo, infatti, la durata limitata delle bobine di pellicola (11 minuti) ha costretto a spezzettare a più riprese il concerto per il cambio di cartuccia – uno stratagemma che viene rivelato anche nel montaggio, seppure in un solo momento.






La scaletta del concerto è perfettamente bilanciata, oscillando tra episodi di puro rock d’altri tempi con le chitarre in primo piano e pause più intime, con versioni acustiche e canzoni arrangiate solo piano e voce. Ottomano affianca Corsi sul palco solo a metà concerto e poi nel finale, suonando in alcuni dei brani più noti, fra cui ovviamente Volevo essere un duro che marca la metà del film.
Il dispositivo di ripresa, con sei macchine da presa attive, restituisce la solennità del luogo. Oltre ai canonici punti di ripresa fissi, Ottomano e De Pasquale piazzano un carrello che scorre frontalmente al palco per cogliere i movimenti sul palco del cantautore, realizzando al tempo stesso dei contre-plongée grandangolari che esaltano in maniera spettacolare l’architettura dell’abbazia. Questo espediente costringe forse ad allontanare eccessivamente il pubblico dal palco, che alla fine risulta un po’ dimenticato anche in sede di montaggio. In compenso, la camera a mano che si muove sul palco (operata da Giulio Melani) cattura perfettamente l’energia dei volti dei musicisti e i dettagli degli strumenti, ad eccezione dei fiati, collocati in alto nella scenografia e dunque un po’ isolati.
L’Abbazia di San Galgano è così autentica protagonista, offrendo una cornice straordinaria, resa ancora più magica dal progressivo calare del sole: la luce dorata, le ombre che si allungano sulle rovine, la fotografia volutamente vintage si incollano perfettamente al mondo naïf e un po’ nostalgico di Corsi, regalando diverse inquadrature suggestive. Una bellezza anti-digitale e in un certo senso anti-moderna, che appare assolutamente naturale nella sua ricercatezza. Una paradossale spettacolarità anti-spettacolare, che è la chiave del film e di tutto l’immaginario corsiano. Un cortocircuito di glam-antiglam che vede protagonista un improbabile Bowie di campagna, dalla cui prospettiva provinciale, magari anche un po’ sfigata, scaturisce una risignificazione poetica della vita di tutti i giorni. Anche gli oggetti più banali e le ricorrenze più ottuse vengono ammantate da un velo favolistico, magico come un tramonto in una chiesa abbandonata.
Credits
Regia di Tommaso Ottomano
Prodotto da Filippo Sugar
Produttore Esecutivo Matteo Stefani
Organizzatore Generale Lorenzo Bramati
Direttore della Fotografia Marco De Pasquale
Aiuto Regista Inigo Placido
Scenografa Michela Croci
Mix e Master Pino “Pinaxa” Pischetola
Registrazione dal vivo Leonardo “Fresco” Beccafichi
Montatrice Ilaria Fusco
Una Produzione Sugar
Produzione Esecutiva Borotalco
In collaborazione con Magellano Concerti, Picicca Management
Realizzato con il contributo della Regione Toscana
Con il sostegno della Provincia di Grosseto
Con il patrocinio del Comune di Chiusdino
Si ringraziano Salty Music, Live Emotion Group
