Una rubrica di Alberto Beltrame
Questo non è un pezzo su di lui. Su di lui si è già scritto abbastanza. Si è già urlato abbastanza. Lo hanno raccontato, smontato, idolatrato, frainteso, studiato, ridicolizzato, temuto. Hanno fatto di lui una maschera e uno specchio, un simbolo che non chiede di esserlo. Questo non è l’ennesimo articolo sullo scandalo, sulla pochezza o sul genio. Bello Figo è lì, reale come un pugno sullo stomaco, ma anche evanescente come un riflesso in una vetrina. Brutale e leggero, diretto e stonato, tagliente e ridondante. Le interviste scorrono come fotogrammi sfocati, le stories come appunti di un sogno confuso. I social vomitano opinioni e la TV replica l’eterno déjà-vu del commento indignato. Ma qui, adesso, non serve ricordare tutto questo. C’è solo la musica. Solo il suono: Bello Figo è Battisti.
The Gynozz. Il chirurgo della trap, una lama che incide e non lascia cicatrici. Preciso, spietato, disciplinato come un artigiano che conosce ogni vibrazione del suo strumento. I beat che costruisce sono bisturi: tagliano il rumore del mondo, sezionano il caos e ne estraggono la forma pura. Sample che si ripetono come mantra, loop che entrano sotto la pelle senza chiedere permesso. Sono camionisti che passano e fischiano come in una canzone di Gimos, testimoni casuali di una città che non dorme mai. L’universo di The Gynozz è una spirale ipnotica, catene che tintinnano, bassi che pulsano come battiti del cuore. Dentro quella violenza c’è una calma segreta, un sorriso nascosto. Ogni beat è un’architettura invisibile, un edificio costruito sulla precisione. Lì dove Bello Figo esplode, The Gynozz calibra, invisibile ma presente in ogni respiro. The Gynozz é Mogol.
Il tempo che non rallenta, la voce che si piega come un corpo che si stiracchia al sole. La città dorme sotto vetri caldi, sospesa tra motori lontani e televisori accesi. Un risveglio senza affanni, pieno di odori familiari e parole fuori posto. I videoclip scorrono uno dopo l’altro, come diapositive impazzite: bagliori, riflessi, colori saturi che si confondono. Un cuore in sovraimpressione, il beat che rimbalza tra pareti di cemento, le facce che si incrociano e spariscono in un lampo. Bello Figo diventa un cortocircuito tra realtà e finzione, tra gioco e confessione, tra parodia e verità. È il suono che riempie gli spazi, la ripetizione che diventa preghiera. Una pasta al tonno mai assaggiata prima, eppure familiare come una frase detta mille volte. E poi Gynozz, che prende quella materia grezza e la rifinisce. È il suo mondo, il nostro mondo, dove entra senza chiedere permesso, chirurgo del tempo e dello spazio. Noi restiamo lì, spettatori immobili, ipnotizzati dal loop che continua, incapaci di capire tanta precisione e coerente sberleffo di nuove retoriche accecanti.
Quando Bello Figo incontra The Gynozz succede qualcosa di magico, unico, inaspettato. Un incontro di estremi: Bello Figo, impulsivo, irriverente, corpo e voce, istinto puro. The Gynozz, chirurgico, metodico, pensiero e struttura. Insieme costruiscono un caos controllato, una dissonanza che si trasforma in armonia. Un brano può cominciare come un urlo e finire come un sorriso segreto. Ogni nota è precisa, ogni parola trova il suo posto, anche quando sembra fuori posto. Il paradosso linguistico del loro swag: troppo e nulla, sempre e mai con ritmo.
Come Battisti e Mogol, anche loro sono una coppia invisibile, perduta, lontana. Si completano nel silenzio, comunicano per frammenti, per intuizioni. L’ironia sottile, i brividi che restano sotto pelle. E noi, testimoni sospesi, ascoltatori dentro un sogno proibito. Acque azzurre, senza mai essere chiare.
