Non capita tutti i giorni di lanciare un album con un cortometraggio di 18 minuti. Come siete arrivati alla decisione di fare un’operazione ancora più in controtendenza rispetto al precedente Quattro pareti? Perché non optare per un classico videoclip?
Giada: Il primo capitolo di questo cortometraggio era una storia che avevo “vomitato” anni fa. Quando Alessandro mi ha fatto sentire Ma tu ci tieni a me? – che è la canzone che si sente all’inizio ed era contenuta nel suo EP precedente – ho subito pensato: “Mi sa che questa canzone è questo video”. L’idea iniziale era quindi realizzare solo il videoclip per quel brano, con un impianto narrativo simile a Quattro pareti. Poi la vita, le tasse, il lavoro… abbiamo dovuto rimandare tutto all’anno successivo.
Da lì è nata una sorta di scrittura parallela: io sviluppavo nuove parti del video e Ale scriveva altre canzoni. Per me si è trattato di capire perché fosse successa quella cosa raccontata nel primo capitolo e come avrebbe potuto avere un finale diverso.
Alessandro: Sì, in parallelo Giada scriveva la seconda e la terza parte del cortometraggio, mentre io lavoravo ai brani del disco. Ma il nostro non è il classico rapporto artista-regista, dove un’etichetta contatta un regista per girare un videoclip. Tutto nasce dai nostri discorsi, che spesso non riguardano solo la musica o il cinema, ma anche la vita. E in qualche modo tutto questo finisce nei testi. Direi che il disco è quasi scritto a quattro mani – ok, i punti SIAE non li prende (ride, ndr) – ma ci sono dentro molte cose sue.
Facciamo un passo indietro: come vi siete conosciuti?
Alessandro: Quando stava per uscire il mio secondo album (Tutti ammassati senza affetto, ndr), i-D mi aveva chiamato per una collaborazione con Versace, e il video doveva essere diretto da Giada. Alla fine dello shooting le ho fatto ascoltare gli inediti del disco. Quando ha sentito Quattro pareti, in particolare la frase “A lungo andare tutto muore come il tuo cane”, l’ha subito collegata a una delle sue poesie preferite (Your Dog Dies, di Raymond Carver, ndr). Da lì abbiamo iniziato a scambiarci idee, io sul lato musicale e lei su quello visivo. Per il video di Quattro pareti, abbiamo passato quasi sei mesi a scrivere, a interrogarci su quale storia volessimo raccontare, scambiandoci reference e libri.
In che modo la musica ha influenzato il video Chiamare casa lo stesso posto e viceversa? Come avete scelto i brani da inserire nel corto? È stato un processo spontaneo o pianificato?
Alessandro: Quando abbiamo deciso di strutturare il video in tre atti, le canzoni ancora non c’erano. Avevamo solo Ma tu ci tieni a me? e io avevo appena iniziato a scrivere altro. Man mano che procedevo con i brani, Giada ascoltava i provini e mi diceva: “Questa è bella, eh, ma nel video mettiamo quest’altra” (ride, ndr).
Giada: Abbiamo fatto una fase di “ping-pong”: lui mi mandava le tracce, io le valutavo per le varie parti del corto. È stato un confronto aperto, in cui eravamo coinvolti in entrambi i progetti, io nel disco e lui nel video.
Ad esempio, l’idea iniziale era mantenere per tutto il primo capitolo Ma tu ci tieni a me?, che era già nel disco precedente, una scelta totalmente controcorrente rispetto a ciò che si dovrebbe fare. A quel punto ero già molto avanti nella progettazione, quindi quando Alessandro mi ha fatto ascoltare il nuovo brano, all’inizio ho dovuto metabolizzare il cambiamento. Ma meno del solito – cosa rara per me – perché era perfetto per quel momento. Quella tonalità diversa, quel ritmo, portavano la scena su un altro piano: non era solo dramma, c’era qualcos’altro. Non ho dovuto tagliare né modificare nulla.
Alessandro: Diventa grande e poi passa – che è appunto la seconda canzone nel corto – è nata proprio per quel capitolo. Mentre la scrivevo, mi sono detto: “Questa deve stare lì”. E infatti l’arrangiamento è stato pensato appositamente per quella sequenza, nel disco suona in modo diverso.
Giada: Ale scrive, produce, fa tutto da solo, quindi viaggia a una certa velocità con le canzoni. Io, invece, volevo fare una cosa di una certa grandezza, anche in ottica futura, per avvicinarmi sempre di più al cinema. L’idea era lavorare su qualcosa di intimo, ma con la struttura di un vero set cinematografico, con cinquanta persone intorno. La sceneggiatura era già pronta a gennaio. A metà marzo 2024 abbiamo lanciato i casting, mentre le canzoni di Ale sono arrivate ad aprile. La scelta dei brani è stata istintiva, di pancia.
Alessandro, oltre alla tua comparsata nella scena della corriera, eri presente sul set? Che ricordi hai di quei giorni?
Alessandro: Sì, ero sul set. Ho ricordi molto belli. Passavo il tempo dietro le quinte, accanto al fotografo che si occupava del behind the scene, Davide Padovan, che Giada aveva coinvolto anche per fare le mie foto promozionali e le copertine dei singoli (non quella del disco, su cui c’è un’altra storia dietro). Abbiamo approfittato del set anche per produrre quel materiale.
Giada: Quando scelgo le persone per il set, non lo faccio solo per motivi tecnici, ma anche per l’aspetto umano. Ero molto preoccupata di mettere insieme Davide ed Alessandro, sapevo già che si sarebbero trovati…
Come nasce la copertina dell’album?
Giada: In mezzo allo shooting. Pioveva – e pensare che avevamo scelto giugno proprio per avere un’atmosfera estiva, ma ci siamo trovati sotto un mezzo uragano. Io stavo avendo un momento di down, mi sono addormentata e Alessandro mi teneva la mano. Quella è diventata la copertina. Niente di costruito.

Questo è un lavoro ibrido, a metà tra un cortometraggio vero e proprio e un videoclip. Ti faccio una domanda un po’ marzulliana: senti più la necessità di staccarti dal videoclip o, al contrario, quella di tornarci e usarlo come linguaggio espressivo?
Giada: Ti ringrazio per questa domanda (ride, ndr). Per me e per Alessandro l’intenzione non era fare il mio film, che poi noi la chiamiamo “cosa”, perché altrimenti lo chiami videoalbum, ma non è un videoalbum. Credo sia difficile dire se è più film o più videoclip, anche dai riscontri che ho avuto pare sia così pure per gli spettatori, ed era un po’ quello che volevo. Il mio film, quello che verrà, sarà molto diverso, anche per approccio sonoro. Qui c’è una forte presenza musicale, con intere sequenze che si affidano al linguaggio del videoclip per portare avanti la narrazione.
Se guardo al mio percorso, probabilmente sono stata ispirata più dai videoclip che dai film, ma sempre da videoclip narrativi. Sono due forme espressive che si incontrano in diversi punti, ma non sul ritmo. Questo lavoro ha un ritmo molto ibrido, e credo sia giusto così. E le parti più vicine al videoclip sono diverse tra loro, basti pensare che per girare il primo capitolo abbiamo impiegato due giorni, per il secondo e il terzo un giorno ciascuno. Abbiamo proprio cercato di costruire tre capitoli con tre stili e poetiche differenti. Solo nell’ultimo capitolo, dove il tempo della narrazione e quello della storia più o meno coincidono, ci sono poche ellissi e lo stile si avvicina di più a quello cinematografico.
Spero un giorno di poter fare cinema, continuare a realizzare bei videoclip e bei lavori ibridi.




Come mai, a livello estetico, avete scelto un’impronta così diversa dal 16mm di Quattro pareti?
Giada: Quattro pareti è una storia che sa di infanzia, non ha troppi riferimenti temporali precisi. Anche a livello di styling e art direction, volevamo tenerla sospesa nel tempo. Con la direttrice della fotografia Francesca Pavoni abbiamo scelto il 16mm proprio per la sua grana forte, con un senso di nostalgia.
Qui, invece, era chiaro che la fotografia dovesse essere più in faccia, meno filtrata, quasi brutale nella sua forza e pulizia. Una fotografia che non proteggesse lo spettatore da ciò che racconta, che non lasciasse spazio a fraintendimenti. Partendo da questa idea, abbiamo fatto una ricerca visiva che ci ha portato alle fotografie di medio formato. Per questo abbiamo scelto anche un formato più “quadrato”, per dare una tridimensionalità più forte e presente: non un ricordo di qualcosa, ma qualcosa che esiste qui e ora, attuale.
Poi Francesca è riuscita, secondo me egregiamente, a creare un continuum visivo, una coerenza estetica dentro cui abbiamo inserito scelte stilistiche drasticamente diverse tra un capitolo e l’altro.
Già che citi Francesca Pavoni, scorrendo i crediti di questo lavoro si ritrovano molti dei nomi di Quattro pareti. Quanto è importante, in un progetto non commerciale come questo, poter contare su un team così consolidato?
Giada: Oggi, in Italia, non esistono fondi per realizzare progetti come questo purtroppo. In questo caso sono state investite parecchie risorse, provenienti dal mio lavoro pubblicitario, da Withstand e Agile, e comunque non erano abbastanza, quindi ci tengo che questo progetto non venga preso come un risultato positivo rispetto al mercato Italiano. Se siamo riusciti a farlo, è stato grazie a persone che ci hanno creduto al punto da mettersi in gioco completamente. Quindi sì, avere accanto persone che credono nel progetto conta più di ogni altra cosa. Non solo per la loro professionalità, ma anche per il lato umano.
A maggior ragione in un set come questo, dove le mie energie erano assorbite dal cast: erano tutti attori alle prime esperienze e richiedevano molta attenzione. Ma anche loro hanno dato tantissimo: ad esempio, la scena della coreografia sul lago l’abbiamo girata di notte, con 12 gradi. Ma loro erano già in acqua, pronti a girare. Eravamo in tanti e non è stato un set semplice. Con più fondi si potrebbero affrontare meglio le difficoltà, ma in questo caso è stata una questione di resistenza e di sudore. Abbiamo organizzato anche una proiezione privata con tutta la troupe, perché spesso manca proprio l’occasione di fermarsi un attimo e dirsi: “Abbiamo fatto una cosa”. E questa cosa l’abbiamo fatta insieme, dal primo all’ultimo. È di tutti.
A livello di post-produzione, c’è stata una collaborazione internazionale con Agile. Com’è nata questa sinergia?
Giada: Agile è la casa di produzione che mi rappresenta nel mercato pubblicitario UK. Sono una realtà molto concreta, con un dipartimento dedicato al cinema, che legge davvero gli script che mandi loro. Già dal trattamento mi avevano detto che avrei potuto contare su di loro per la post-produzione. Poi, mentre chiudevamo il budget, hanno letto la sceneggiatura e, in modo del tutto spontaneo, hanno deciso di entrare in coproduzione con Withstand, con cui stavo sviluppando il progetto.
Davide Ferazza (EP di Withstand, ndr) e Myles (Payne, EP di Agile, ndr) sono molto attivi nei feedback sulla sceneggiatura. Entrano nel merito con osservazioni mirate, competenti e volte a trovare soluzioni produttive concrete che fossero il più vicino possibile alle mie idee
Parlando di post-produzione: Alessandro, ti sei occupato del sound design. È un aspetto che ti piacerebbe esplorare ulteriormente, anche in progetti non legati alla tua musica, o già lo stai facendo?
Alessandro: Sì, finora mi è capitato di lavorarci soprattutto per installazioni e alcune pubblicità, ma non con Giada. Nell’ultimo periodo, essendomi concentrato sul mio progetto musicale, l’ho un po’ messo da parte. Però è un discorso che mi interesserebbe riprendere, soprattutto in ambito cinematografico.

Quando si lavora con attori (o non attori) molto giovani, il casting diventa fondamentale. Qui la sfida era ancora più complessa perché servivano due gemelle o due sorelle molto simili. Puoi raccontarci com’è andata?
Giada: Ho già lavorato molto con ragazzi e ragazze di questa età, come in No Mercy di 3VR, o nel mio corto Creatura e Quattro pareti. Molti sono gli stessi, sono ragazzi e ragazzini del mio paese, da amici dei miei fratelli a mia cugina che coinvolgo sempre nei progetti. Questo per i personaggi secondari. Per i protagonisti, invece, abbiamo cercato attori professionisti.
Non stavamo cercando due gemelle, ma al casting si sono candidate entrambe, entrambe molto brave e ho pensato potesse essere molto interessante rivedere lo script in questo senso, dalla coreografia alla scena allo specchio.
Per Stefano (De Vivo, che interpreta Gio, ndr) è stato ancora più divertente: arriva il suo provino, ed è perfetto. Poi scopriamo che abita a Marchirolo, a due passi da Cunardo, e che già conosceva tutti i ragazzi che avrebbero fatto da comparse.
Anche Tommy (Tommaso Minnì, che interpreta Lui, ndr) è stato fondamentale. Aveva meno scene, ma è stato presente tutto il tempo a supportare gli altri. È stato l’unico, nel casting, a non candidarsi per il ruolo di Gio. Quando gli ho chiesto perché non lo aveva fatto, molto onestamente mi aveva detto che non era il suo, non se la sentiva. Questa sorta di umiltà, di coscienza di sé, mi ha convinta a prenderlo e ha funzionato molto bene.
Come ti sei approcciata alla direzione di attori così giovani? Avevi dei modelli di riferimento? Lavorare con gli adolescenti è complicato: per coinvolgerli davvero ci vuole talento…
Giada: Più che talento, direi che serve trattarli come collaboratori, dando loro fiducia. Basta poco. Il mio metodo è trattare queste ragazze e questi ragazzi da adulti, perché di fatto lo sono. Affido loro la responsabilità della storia, li interrogo su ciò che sta succedendo, su quello che il personaggio sceglie di fare e sentire.
Avevo una lista di ragazzi del paese che sapevo essere affidabili, alcuni non erano disponibili e ho dovuto scegliere anche i più scatenati… e invece si sono rivelati i più presenti e motivati. Pronti a dare una mano con qualunque cosa.
Ci sono tantissimi libri sulla direzione degli attori, diverse scuole. Consiglierei Lezione di recitazione di William Esner, che è una trascrizione delle sue lezioni, quasi scritto a mo’ di copione. Credo, però, che studiare recitazione in prima persona sia decisivo. L’ho fatto per un anno, con zero ambizioni attoriali, ma ho iniziato a capire quel “stare dall’altra parte” cosa significa.
Avete anche collaborato con un actor coach in questo caso.
Giada: Sì, in preparazione abbiamo fatto un workshop di tre giorni con Fabio Marchisio, un bravissimo regista teatrale che avevo conosciuto grazie a Nascondino, spettacolo scritto da Tobia Rossi (co-sceneggiatore di Quattro pareti) con due protagonisti teenager recitati da attori quindicenni in uno spettacolo di un’ora e mezza. Ho capito che Fabio era la persona giusta per aiutarmi a lavorare con ragazzi di quell’età. Il fatto che fosse lui a condurre mi ha permesso di osservare Ste, Tommy, Ale e Deni (Denise Boccagni e Alessia Boccagni, ndr), e anche di fare gli esercizi con loro, facendo capire che si trattava di un lavoro serio.
Abbiamo lavorato molto sulla parte drammatica, perché quella caciarona ce l’avevano già – anche troppo (ride, ndr). All’inizio abbiamo provato a lavorare sulle fobie, ma ci siamo incartati: le fobie hanno un lato comico, una volta ammesse in un certo senso le risolvi. Quindi ho proposto a Fabio di lavorare sulle paure sociali, su qualcosa di più vicino a loro. Abbiamo fatto degli esercizi di visualizzazione per sviscerare queste emozioni, che poi abbiamo sempre applicato direttamente alle scene.
Prima di girare e dopo il workshop, abbiamo fatto almeno altri cinque giorni di prove. Avevo anche montato i video test girati in sala prove per rivederli insieme ai ragazzi, ma sono serviti anche a me per capire il ritmo delle scene. È stato un lavoro di scambio continuo. Sono stati tutti fenomenali.
Mi sembra che, oltre ai due protagonisti, ce ne sia un terzo: lo smartphone, con le sue stories, praticamente onnipresenti. Voi, nell’adolescenza, avete “sfiorato” la diffusione delle stories e dei reel. Pensate di essere stati fortunati rispetto agli adolescenti di oggi?
Giada: Premetto che la storia che racconto in questo video è qualcosa che mi è accaduto quando avevo dodici anni, quindi vent’anni fa. All’epoca non c’era il cellulare, si usciva in piazza per trovarsi, ci si incontrava fisicamente.
Ad oggi il telefono ha un ruolo centrale: c’è una forte attenzione all’immagine, al mostrarsi, ma spesso non si traduce in qualcosa di concreto. Non saprei dirti, ci sono esperienze che io ho fatto molto più giovane di loro, semplicemente perché non avevo il filtro dello smartphone. Ad oggi si “flexa” ponendosi in un certo modo, danno l’impressione di aver vissuto già determinate esperienze… e invece non è così, le si vede solo passare da story in story.
Spesso è solo immagine, è un volersi mostrare in un certo modo, che io ho voluto raccontare nel monologo iniziale: lui cerca di dire che è tutto ok, che “so tutto io com’è la vita”, ma che in realtà non è così. Nel capitolo dell’incidente, invece, assume un altro significato: diventa la vita che ti scorre davanti, mentre il protagonista è ormai morto.
Alessandro: Sempre in riferimento alla prima sequenza, il tema della prima delusione d’amore è universale: non cambia se è successo nel ’99, nel 2005 o se succede oggi. È qualcosa che ti rimane dentro, può essere esposta sui social in un modo o in un altro, al contrario di come l’abbiamo magari vissuta noi, visto che loro lo usano come sorta di diario. Però l’emozione sotto rimane la stessa e attecchisce nello stesso modo.




Nel terzo capitolo c’è una sequenza in cui prendi una pausa dal racconto, soffermandoti sui volti dei passeggeri della corriera. Cosa rappresenta per te questa scena?
Giada: In un certo senso, io sono cresciuta sulla corriera. Ho di nuovo una macchina solo dallo scorso agosto, quindi per anni per tornare a casa, lo facevo con treno e pullman. Questa scena è nata proprio così: ascoltando la musica di Ale durante uno dei miei viaggi. A un certo punto c’è stato un momento di pausa nel brano, ho alzato lo sguardo e ho iniziato a osservare le persone intorno a me.
C’era un senso di attesa. Sei su un mezzo con degli sconosciuti, condividi uno spazio ristretto, c’è qualcosa di intimo, ma allo stesso tempo non hai idea di cosa stia accadendo nella vita di chi ti siede accanto. Mi è sembrato un momento giusto rispetto alla storia che stavamo raccontando, di questa ragazza che è l’unica a vedere il fantasma attorno a lei. Anche se l’ho razionalizzato dopo.
Ecco, proprio pensando a questa scena, direi che c’è una quarta protagonista: la corriera. Torna dopo No Mercy e Quattro pareti. Io la definirei quasi una “trilogia della corriera”. Sono tre video molto diversi, ma accomunati dallo scenario delle valli varesine, vista lago. Hai girato il mondo sia per formazione che per lavoro, eppure continui a tornarci. Cos’è che ti spinge a farlo? Chiami ancora casa questo posto?
Giada: Parto con un easter egg: l’incidente nel secondo capitolo è causato dalla presenza sulla strada del cane di Quattro pareti. Anche la comparsata di Ale sul pullman non è casuale, ma un modo per ricollegarsi a quel video.
Il titolo del cortometraggio – che non è quello dell’album, ma è estratto dalle lyrics – parla proprio del tornare, del fare pace con quello che chiami casa. Per entrambi, casa significa i luoghi dell’adolescenza, dell’infanzia, i posti dove siamo cresciuti. È un processo di riconciliazione.
Per me, è anche una questione personale: tornare nei luoghi dove ho vissuto momenti difficili, portando con me un discorso artistico, anche di possibilità. Ho odiato tantissimo questi posti, eppure hanno un potenziale incredibile. Hanno un immaginario, una bellezza e una complessità che ritrovi in tanti luoghi marginali, che non sono per forza poveri. È una provincia bene, dove va tutto bene, ma poi in realtà non è così. Sì, chiamo ancora casa quel posto, è il posto dove il cuore rimane.
Il video affronta temi strettamente legati all’età degli attori e delle comparse. Dato che dietro c’è stato un lavoro quasi intimo, volevo chiederti: ti sei confrontata con loro su questi temi? E in che modo hanno influenzato il risultato finale?
Giada: Il confronto con loro è stato costante. Più che un confronto, lo definirei un ritrovarsi, perché si tratta di dinamiche che, in un modo o nell’altro, hanno vissuto tutti. E non parlo solo del cast, ma anche della crew: c’è stata da parte di tutti la scelta consapevole di affrontare e abbracciare questi temi.
Sto scoprendo, dai vari riscontri, che sono argomenti che hanno segnato molte persone. Io dico sempre che questa è una storia piccola: la prima volta che ho visto il montato mi sono chiesta “ma ha senso? Risuonerà davvero con qualcuno?”. Poi, però, molte persone sono venute a dirmi “mi è successa una cosa simile” o “mi ha ricordato un’esperienza che ho vissuto”. Già sul set si sentiva questa energia.
Questa tematica nasce da un’esperienza personale o c’è stato anche un lavoro di ricerca socio-psicologica?
Giada: All’inizio ho provato ad approcciare saggi e manuali… ma erano scritti da adulti. Mi sono resa conto che aveva molto più senso basarmi sui miei ricordi e sul mondo dei miei fratelli minori, con cui ho un rapporto molto stretto e che stanno vivendo adesso queste cose.
Mi sono capitati in mano testi e saggi sull’argomento, ma avevano un approccio dall’alto, meno diretto rispetto al confronto con loro o con mia cugina – che tra l’altro è nel video e ha vent’anni meno di me. Ho conosciuto le sue amiche durante un workshop di danza: le ho accompagnate, ho passato del tempo con loro, ho ascoltato i loro discorsi. Quella è stata la mia ricerca.
Poi, ovviamente, c’è stato un dialogo con gli attori: gli ho raccontato la storia e chiesto se la sentissero vera, se si rivedessero in quello che volevo raccontare. È un progetto che è nato insieme al cast. Può sembrare un’ovvietà, ma il risultato finale non sarebbe stato questo senza di loro. Anzi, non so nemmeno se questa cosa sarebbe esistita, perché hanno dato una forza incredibile e hanno avuto un coraggio che raramente si vede.
Deve essere stato un set molto intenso, oltre che impegnativo.
Giada: Penso il più tosto che abbia mai fatto. C’era tanta ambizione, ma anche la volontà di garantire il più possibile una dignità lavorativa. Per la complessità del progetto, è stato un lavoro a basso budget, in condizioni diverse sarebbe costato centinaia di migliaia di euro.




Alessandro, tu sei romano – l’“anti-provincia” per definizione. Che effetto ti fa vedere la tua musica trasformarsi, diventare colonna sonora di storie e spazi così lontani dal loro luogo di origine?
Alessandro: Io sono cresciuto a Roma, ma non sono di Roma. Ho vissuto a lungo nella provincia laziale, in un paesino di seimila abitanti. E quando voglio staccare e mettermi a scrivere, ci torno. Dove sono cresciuto non è Cunardo, ma anche lì c’è un lago, quello di Bracciano. È uno sfondo che conosco, e forse è anche per questo che mi sono connesso così tanto con Giada.
Cosa differenzia questo nuovo album dai tuoi lavori precedenti?
Alessandro: Tutti ammassati senza affetto è stato il primo disco ad andare abbastanza bene, quello che mi ha fatto girare e conoscere. Poi ho avuto un burn out e ho cercato di riavvicinarmi alla mia famiglia “scelta”, alle persone importanti per me. Per questo è un album molto personale: parla più di Alessandro che di Arssalendo. Inoltre, è un disco meno frenetico. Ho qualche anno in più, meno rabbia post-adolescenziale. Forse più disillusione.
Dal punto di vista sonoro, ci sono stati ascolti che ti hanno influenzato particolarmente?
Alessandro: Tantissimi. Oltre agli ascolti dell’adolescenza, che restano sempre con te, sicuramente la scoperta di Bon Iver, Sufjan Stevens, e il ritorno al cantautorato indie italiano – I Cani, Colapesce, quel giro lì. E poi tanta musica che mi ha passato Giada…
Giada: Tipo?
Alessandro: Beh, jigitz! (ride, ndr) E poi ci sono quei due-tre dischi che ascoltiamo sempre tipo Holy Other. E tanta musica elettronica, ma più incentrata sul testo e meno sul clubbing. Meno veloce, meno distorta. Più rilassata, meditativa.
Nei live dobbiamo aspettarci visual legati a questo progetto?
Giada: Forse più avanti. Il disco ha otto tracce, mentre il live dura un’ora e cinque: è una versione estesa del disco, un racconto alternativo che include anche brani degli album ed ep precedenti. Per questo stiamo lavorando a un progetto visivo diverso.
Vi chiedo di salutare i nostri lettori chiedendovi a entrambi di consigliare un libro, un film e un disco. E un videoclip!
Alessandro: La sconfitta di Pierre Minet, Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman, Saya di Saya Gray e In The Modern World dei Fontaines DC, scritto e diretto da Luna Carmoon.
Giada: Niente di Jane Teller, Donnie Darko di Richard Kelly, Britpop di A.G. Cook… Sabrina di Einstürzende Neubauten.